“Guarda che non sono io quello che stai cercando
Quello che conosce il tempo, e che ti spiega il mondo
Quello che ti perdona e ti capisce
Che non ti lascia sola, e che non ti tradisce.”(F. De Gregori)
Il paradosso della musica indie è che vuol dire tutto e niente.
Sia quando è realmente indipendente, sia quando è un prodotto commerciale, spesso ha testi che possono essere considerati un prontuario di frasette vaghe, utili ad ammaliarti per via dell’effetto Forer.
Nel nuovo album di Francesco Motta io mi ci sono rivista tanto. Ci ho visto la parte costruttiva di un percorso che inizia alla “fine dei vent’anni“, quando la realtà circostante, il lavoro, “la vita adulta” producono terremoti che saggiano la resistenza delle fondamenta che fino a quel momento hai costruito e quasi sempre demoliscono un bel po’.
“La fine dei vent’anni“, il precedente album, descriveva la parte distruttiva: la smania, la demolizione, la confusione. “Vivere o morire” è un album più armonioso, più leggero e consapevole.
“E’ arrivata l’ora di restare” scrive e di prendere atto di ciò che siamo, di abbassare il volume della musica ed ascoltare finalmente le paure, senza sentire l’impulso di metterle a tacere, senza combatterle o negarle, semplicemente comprendendole ed imparando ad essere abbastanza forti da non avere più bisogno di loro.
C’è maggiore fiducia che si traduce in una musicalità più aperta e distesa, meno chiaro-scuri nei testi.
Speciali per me “La prima volta”, “Chissà dove sarai” e “Quello che siamo diventati“.
Particolare anche “Mi parli di te“, la prosecuzione ideale di “mio padre era comunista” e di “una maternità”.
In queste nove tracce leggo la volontà di crescere, di vedere tutto un po’ più chiaro. Ma forse è solo l’effetto Forer.
Sara Di Bella