Zen circus e la catarsi. Indiegeno 2018.

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(foto di Alessandro Freni)

Lungomare di Patti: una grande piazza di sabbia, senza un alito di vento e grappoli di gente seduta a gambe incrociate.

Grandissima attesa per i Zen Circus, che non ho mai visto dal vivo.

Si abbassano le luci, ci alziamo e ci avviamo sotto il palco, compattandoci con tutti gli sconosciuti che hanno avuto la stessa idea. Di solito questo è il mio momento preferito.

Esplode nel buio la grazia di una vecchissima canzone, il cielo in una stanza, che addolcisce l’immagine minimale della scenografia scarna.

A seguire Appino e compari entrano correndo sul palco, con le chiome al vento; inizia una specie di rito catartico collettivo durato quasi due ore.

La voce di Appino è un’onda rabbiosa che ti investe all’improvviso, è schietta e diretta come la cazziata di un’amica.

Ti parla di provincia claustrofobica, ma essenziale, che alla fine un paese ci vuole, anche solo per il gusto di andar via, di guerre fuori e dentro di te, di malinconie inafferrabili e di storie d’amore e di fantasmi.

Te ne parla con un’energia devastante e scarna. In tutto questo penso che ha ragione quella specie di guerriero dark, che il mondo è tanto complicato, ma va guardato in modo diretto e privo di fronzoli e va guardato per ciò che è.

E io ci voglio provare.

Sara Di Bella

Indiegeno 2018, serata conclusiva, Zen Circus, Marina di Patti.

 

 

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